di Franco Trifuoggi
La consacrazione di un saggio ampio ed analitico al tema della distinzione può apparire, al lettore avvezzo alla quotidiana celebrazione massmediatica della sagra del politicamente corretto, del luogo comune e del conformismo consumistico, fuori luogo, sconcertante, o addirittura materia di scandalo, massime se susciterà in lui l’impressione di trovarsi di fronte ad una aprioristica glorificazione della nobiltà di sangue, e a maggior ragione se avrà scoperto che l’autore discende da una famiglia gentilizia, di Tramonti, Positano e Sicilia. In chi, tuttavia, si inoltrerà nella lettura delle pagine di questo volume (Elogio della Distinzione, Fondazione Thule Cultura, Palermo 2016), si andrà attenuando, se non scomparirà del tutto, ogni pregiudiziale diffidenza. D’altronde lo stesso sottotitolo, nell’ampiezza del suo arco semantico (Aristocrazia, Cavalleria, Nobiltà, Stile in tempo di barbarie), ammonisce contro ogni interpretazione riduttiva o arbitrariamente semplificatrice. Parimenti l’autore, Tommaso Romano, docente e Direttore del Dipartimento di Scienza della Biografia dell’ISCA di Roma, presidente della Fondazione Thule Cultura, direttore della rivista Spiritualità e Letteratura, saggista, estetologo, poeta originale, non si limita ad esporre compiutamente la propria concezione in merito, ma la suffraga efficacemente con un amplissimo florilegio di autori di ogni tempo e nazionalità, e di difforme estrazione ideologica, culturale e sociale.
Opportunamente, e significativamente, egli chiarisce il suo intento, cioè “indicare ciò che è considerato inattuale e scorretto rispetto ai tempi che viviamo, propriamente per sottolineare la sempre permanente concezione di Aristocrazia, Cavalleria, Nobiltà, intese come segno e consapevolezza di Stile, per una risvegliata coscienza d’affinamento e qualificazione del soggetto, di Distinzione appunto, rispetto a tutto ciò che è, invece, conforme, standardizzato, massificato nel singolo e nel processo abbrutente informe come drammaticamente avviene nella società del nostro tempo”; e precisa che recuperare tale concetto “non significa certo proporre il disprezzo degli altri o la separatezza aprioristica e irreale”, in quanto la Distinzione “può essere perseguita da tutti, volendolo… riscoprendo l’unicità e l’irreversibilità che contraddistinguono da sempre ogni donna e uomo apparsi sulla terra, frutto di una Creazione e non di una ideologica e indimostrata “fede” evoluzionistica”. E’, dunque, evidenziare “ciò che distingue spiritualmente” rispetto alla “babele della volgarità”, rivendicando il valore dell’educazione e dell’etica tradizionale, della cortesia e della disponibilità, “attitudine alla delicatezza e rispetto per tutti a cominciare dall’aiuto possibile…per i più sfortunati, emarginati, deboli, anziani, indifesi”, nel segno dello spirito della più classica e nobile Cavalleria.
La Distinzione, intrinsecamente aristocratica, rivela di ognuno “lo stile, la raffinatezza, l’eleganza, la sobrietà, la finezza, il garbo” in una con la “discrezione, fermezza, signorilità e gentilezza…”; essa è necessaria per “distinguere ciò che è bene da ciò che è male”, al di là del relativismo e del minimalismo correnti, per “uscire dal coro”, indicare una via “per ritornare liberi, padroni di sé”, riconoscendo la selettività e il merito quali valori aristocratici, da conquistare mediante una vita coerente con l’altezza dei principi professati e improntata alla dignità e all’onore.
Sarebbe impresa ardua racchiudere nel breve giro di un articolo una sintesi esaustiva della fitta illustrazione di tali concetti, ricca di storia, etica, teologia, araldica, antropologia, e di innumerevoli riferimenti a grandi pensatori, artisti, mistici, sovrani, saggisti. E’, però, più agevole enuclearne alcuni spunti e rilievi particolarmente significativi e suasivi. Anzitutto il concetto di tradizione, ricondotto etimologicamente al latino tradere, ovvero trasmettere una “consegna verticale proveniente dall’alto, da Dio o dagli Dei”, o comunque da un Assoluto “che trascende e lega ogni soggetto all’idea del cielo, del cosmo, del sacro, oltre che alla terra”, nell’attesa e speranza di vita eterna; o laicamente ritenuta “prolungamento vivificante” che dal passato “porta al presente e propone l’avvenire (concezione diffusa nei paesi anglosassoni con la figura del gentleman e che gli ricorda Prezzolini). E la sottolineatura della frattura determinata dalla fine del Medio Evo con l’accelerazione dell’egemonia della tecnica e della tecnocrazia a svantaggio della vocazione verso la trascendenza e il senso della dipendenza da Dio: un processo rivoluzionario in cui Liberismo, Marxismo, Positivismo e Storicismo sono “facce di una medesima medaglia sovvertitrice”. Al riguardo si propone l’ipotesi di una reversibilità di esso con la resistenza individuale e/o “il riunirsi comunitariamente in piccoli gruppi e famiglie“, comunque mantenendo “uno stile, un asse interiore” mediante l’autodisciplina e l’ascesi.
Ed ecco una necessaria precisazione: la reiezione delle “sole rivendicazioni dovute al tempo delle investiture e delle legittime nobilitazioni di sovrani e papi”, in quanto, in genere, non sono queste le élites a cui riferirsi: blasonati degni ve ne sono ancora, ma la nobiltà, in parte, non è – anche per l’alterigia e la supponenza -, all’altezza del titolo (come si rileva in vari Ordini e Confraternite cavalleresche). Ad essa fa riscontro la decisa e categorica asserzione per cui nobiltà oggi può essere solo “quella dello Spirito degno del passato o pronto a generare una novella Tradizione”, all’insegna del brocardo dantesco “fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e conoscenza”, della consapevolezza che l’aristocrazia autentica è “il connotato del meglio rispetto all’usuale, al volgare”, secondo l’insegnamento di Platone, e che il fine ultimo non va riposto nel contingente. Donde ad ognuno è possibile essere aristocratico, degno dell’antica nobiltà, vivendo senza superbia, nella perseveranza, nella temperanza, nella rettitudine, oltre che nel servizio dei più deboli, sia materialmente sia moralmente. E’ rilevante, peraltro, l’opportunità che i sovrani ancora in carica riconoscano e concedano onori e meriti: comunque non sono “il denaro, la potenza sociale o le “cordate” amicali e/o clientelari” a dover decidere circa un riconoscimento di aristocrazia. Illuminanti sono i richiami ai classici: a Seneca, con l’ammonimento a “sapersi ritirare in se stessi” ma anche a “saper alternare la solitudine e lo stare con gli altri”; come a Marco Aurelio (e a S.Agostino) circa la norma dell’agire che può solo essere ispirata all’universalità dei valori; e insieme la sentenza per cui “chi gode di un animo nobile non sopravviverà inebetito nel nichilismo e nella sciatteria”.
Inequivocabile e severa è la deplorazione del corrente “dogma del non discutibile”, della diffusa liceità della licenza assoluta e della tendenza verso il livellamento sessuale, l’azzeramento della polarizzazione fra i sessi; della progressiva scomparsa della “autorevole e necessaria figura del padre e di ogni principio di tradizionale convivenza”. E al contrario vivida l’esaltazione dell’onore, della fedeltà, quale virtù fondamentale, che trova un’efficace esemplificazione in figure eroiche come Salvo D’Acquisto, S.Massimiliano Kolbe, i martiri monarchici napoletani di via Medina nel 1946, Jan Palach, Paolo Borsellino, Don Puglisi, “aristocratici cavalieri” del nostro tempo. Particolarmente opportuno, poi, il richiamo a Franz Ebhardt, autore ottocentesco de L’arte di vivere, a sostegno del giudizio secondo cui la propria casa è oggi “più che mai da considerare come un luogo necessario di elezione, uno spazio di ammutinamento rispetto alla volgarità montante, irriguardosa, livellata e servile del mondo circostante”: una dimora che può tuttavia aprirsi accogliendo “pochi e scelti interlocutori per goethiane affinità elettive”, e di cui va curata l’armonia, la bellezza nella custodia (e nel rinnovamento) di memorie, affetti, ed eventuali collezioni, alla luce dell’affermazione di Borges, per il quale dureranno più in là oblio le cose, pure le cose minime ci cui discorre Pessoa, e nella scia di Vitruvio e Plinio il Vecchio: una casa che in un’epoca di “diaspora spirituale”diviene un rifugio all’inclemenza del tempo, come scriveva Gómez Dávila.
Considerazioni, queste, a cui si affianca la deplorazione della profanazione dei monumenti o dell’indifferenza di fronte ad essi, a cui fa riscontro il riconoscimento della possibilità di “costruire dimore, borghi e cattedrali” (ne è uno straordinario esempio Gaudì) e di “restaurare”, purificare, intanto, il nostro paesaggio interiore con l’arte, la cultura, senza dimenticare il buongusto, la convivialità domestica, magari anche scegliendo la campagna con le sue risorse e bellezze. Opportuno, poi, il ricordo dei precetti contemplati dal Codice cavalleresco, che si tramanda da secoli: “Presterai fede in ciò che insegna la Chiesa; Rispetterai i deboli e ti costituirai loro difensore; Amerai il paese in cui sei nato; Non indietreggerai mai davanti al nemico; Combatterai gli infedeli senza tregua e pietà… Non mentirai e terrai fede alla parola data; Sarai sempre il campione del bene contro l’ingiustizia e il male”. Donde il paradosso di quanti rivendicano “titoli e onori del passato promanati da autorità cristiane” e contemporaneamente si professano appartenenti ad altre fedi o addirittura agnostici o panteisti. E infine una vena nostalgica pervade la costatazione dell’ improbabilità della restaurazione di “troni e altari, corone e tiare” a meno di un intervento soprannaturale. Perfettamente in chiave con l’afflato religioso del discorso la conclusione, con l’esortazione ai “cavalieri erranti alla ricerca del Graal”, perché preghino e avanzino “in prossimità d’incontro con i loro pari” per meritare l’Eterno incontro con Dio e riconquistare, con purezza di cuore e limpidezza di sguardo, “la Gerusalemme celeste”.
Di queste pagine mi pare denominatore comune un illuminato conservatorismo che, pur potendo ispirare o condizionare opzioni politiche, non configura un disegno politico, e quindi, sia per la prevalente angolazione etica sia per la dimensione élitaria, non è tale da turbare i sonni dei maggiorenti del nostro panorama partitico. Al fervore e all’impegno intellettuale di questa lucida disamina segue un centinaio di pagine di antologia, popolate, in ordine alfabetico, da autori di epoche, nazionalità, lingue diverse; antichi, medievali, moderni ed anche contemporanei: poeti, filosofi, Papi, Santi, moralisti, Sovrani, storici, politici, statisti, mistici, romanzieri, musicisti, giornalisti. Sono brevi sentenze, aforismi, sobri brani o ampie dissertazioni. Si va, così, dalle pronunce incisive di Aristotele (“Chi è degno di grandi cose, è uomo nobile”), di Confucio, di Giovenale, di Dante (“E’ nobilitade ovunque è virtude, e non virtude ovunque è nobilitade”), di Carlyle (“Tra gli uomini c’è una naturale aristocrazia i cui fondatori sono la virtù e il talento”), di Baldassarre Castiglione (teorizzatore della “sprezzatura”), di Tommaso Campanella, di Francesco I Re delle Due Sicilie (“I contrassegni di onore e di distinzione sono il più potente eccitamento alle virtuose e lodevoli azioni”), di Fausto Gianfranceschi (“La confraternita degli spiriti nobili esiste”), di Salvator Gotta (“L’anima a Dio, la vita al Re, il cuore alle Donne, l’Onore a me…”), di Hirohito Imperatore del Giapone, di Jean Rostand (“Non c’è nobiltà senza generosità…”), di Marcello Veneziani, di Stefano Zecchi; alle articolate disamine di Louis de Bonald, di Plinio Corrêa de Oliveira, di Meister Eckhart, di Romano Guardini, di José Ortega y Gasset, di Régine Pernoud, di Pio XII, di Gustave Thibon, di Diego de Vargas Machuca. E tra i due poli, numerosi brevi pensieri, come quello di Maria Patrizia Allotta, Nicolas Boileau. Giovanni Botero, Franco Cardini, Benedetto Croce, San Francesco di Sales, Vincenzo Gioberti, Guido Guinizelli, Emmanuel Lévinas, Joseph de Maistre, Gennaro Malgieri, Jean de Meun, Alfredo Oriani, Riccardo Scarpa, Arthur Schopenhauer, Seneca, San Tommaso d’Aquino, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Gian Battista Vico.
Diverse voci, queste, che alimentano la mirabile armonia di questo suggestivo panorama. Se, infatti, molte sottolineano la necessità imprescindibile della virtù, altre insistono sulla genesi religiosa della nobiltà; qualcuna pone l’accento sul valore dell’ereditarietà, qualche altra sulla generosità e, in genere, “sulla differenziazione del comportamento e dell’interiorità, della qualità e del merito”; c’è chi privilegia l’aristocrazia del pensiero e della cultura, mentre deplora lo scadimento etico dell’aristocrazia di sangue; chi si sofferma ad additare i limiti dello spirito borghese e l’uso distorto degli “immortali principi dell’ ’89”; chi auspica la formazione di una nuova aristocrazia nella scia dello spirito della cavalleria. Voci, dunque, diverse ma sostanzialmente concordi sui processi dissolutivi, “perniciosi aspetti della secolarizzazione e della tecnolatria”; e quindi nel rivendicare l’esigenza di esorcizzare l’odierna barbarie, massificatrice e ofelimitarista.
Fanno degna corona alle due sezioni precedenti del libro le raffinate pagine del Congedo al Café de Maistre, che si ispirano ai due aristocratici savoiardi, alfieri della tradizione, Joseph e Xavier de Maistre; e quelle del saggio, “di cristallina chiarezza”, dI Don Amadeo-Martín Rey y Cabieses Tres conceptos de Excelencia: Nobleza, Caballería, Aristocracia: un testo di cui Tommaso Romano evidenzia “lo stile, il rigore storico e dottrinale, l’uso accorto delle fonti, nonché il panoramico diorama organicamente tracciato dallo scrittore che, incardinato a partire giustamente dalla Tradizione spagnola, si arricchisce con validi approfondimenti indicati anche in quelle di varie altre nazionalità e culture, con rilievo riguardo pure alla realtà storica italiana…”.
Un saggio che si conclude additando gli elementi fondanti della “mejor aristocrazia” nel “respeto a la palabra data”, nella “bontad y la generosidad, la valentia y el coraje, la sinceridad y el respeto a la verdad” congiunti alla “modestia y umildad de corazón”. Una conclusione che mi pare atta a fugare ogni diffidenza (quasi un sentore di egocentrismo o di superbia o di scarsa solidarietà o di mera galanteria) o incomprensione circa l’intento di questo bel libro; che può, ovviamente, non piacere ai conformisti o ai dissacratori della tradizione, ai demagoghi, ma indubbiamente interpreta un’istanza spesso dissimulata ma particolarmente avvertita dalle persone restìe ad unóiformarsi alla decadenza etica corrente. Un libro coraggioso, certamente, nel vigore della sua denuncia e nel fervore (non acritico) della sua rivendicazione della tradizione. Donde il “panormita inattuale” (come si definisce l’autore) appare più che mai attuale, nella luce dell’esigenza di esaltare ciò che leva l’uomo al disopra della palude della grossolanità, del conformismo, della barbarie.