di Manlio Corselli
In tempi di barbarie è davvero un atto di audacia inusitata, che – direi – rasenta addirittura la follia, il voler vergare e pronunciare elogi sulla distinzione. Ma siffatta decisione, lungi dall’essere atteggiamento di insana presunzione intellettuale, corrisponde al contrario alla volontà di un Autore, dall’animo sano e robusto, di scegliere di essere deliberatamente inattuale.
Infatti le considerazioni che Tommaso Romano svolge in questa sua ultima poderosa, ricca e preziosa opera non possono che essere intrinsecamente inattuali allorquando risuonano nel deserto popolato dagli ammiccanti ultimi uomini di nietzscheana memoria, i quali appaiono come deboli, tristi coscienze addormentate nel naufragio della modernità cullata da un nichilismo dolce e perfino sdolcinato.
In tempi di barbarie, perciò, tessere l’elogio della distinzione è un’impresa assai iperbolica che urta coloro che sono gioiosamente poveri di spirito e che scandalizza coloro che si nascondono dietro ciò che è il ‘civilmente e politicamente corretto’.
Questo elogio, invero, può apparire alquanto sgradevole sia sul fronte delle eguali aspirazioni di massa sia sul versante dei comportamenti diffusi della gente, ragion per cui esaltare il valore della distinzione produce un apparente, grave ed irrimediabile scandalo sociale.
Di conseguenza colui che propugna l’eccellenza della distinzione, e se ne fa carico di coerente testimonianza di esistenza, finisce per essere relegato nella perpetua solitudine, nonché per essere confinato in una situazione di isolamento quasi assoluto in un mondo come quello attuale che raggruma gli stili di vita di ognuno in una serie di schemi omologanti sulla scia dell’essere e dell’apparire sotto l’egida dell’egalité.
Dalla Rivoluzione Francese in poi l’egalité si pone come l’unica ed imperiosa, ed imperativa legge del corso della storia che travolge tutti i residui distintivi che caratterizzano la varietà e la multiformità degli aspetti umani e culturali. L’egalité si propone come l’unico dio dei tempi moderni a cui sacrificare tutte le differenze grazie alle quali, invece, ognuno di noi si specifica come un individuo vivente unico ed irripetibile nella scena del mondo. Essa appare piuttosto come il trionfo attuale dell’uniformità.
Il fatto è che l’eguaglianza paritaria, intesa come valore supremo e fondante della comunità civile, ha senso se rapportata all’eguaglianza sancita dagli ordinamenti giuridici dinanzi alla legge; diventa invece una mistificazione se sopravanza il valore della libertà inteso nel suo senso più radicale di affermazione di distinti progetti di vita individuali. Il valore della libertà, nel nostro caso, rappresenta il fertile humus da cui germoglia la santa riscossa contro la parificazione che tutto con-fonde nel buio della notte dell’indistinzione. Soltanto uno spirito libero e forte, perciò, può rivendicare il diritto alla distinzione.
Sì, perché la distinzione è innanzi tutto educazione di giudizio e conformazione di coscienza che fa da base a comportamenti degni di fungere da exempla, ovvero a contegni personali di impronta onorevole. Allora, l’ethos della distinzione – suggerisce Guglielmo Bonanno di San Lorenzo – si mostra nel personale contegno che suscita in coloro che ci sono vicini e rivela segni di stimata considerazione e riconoscimenti di onorevoli apprezzamenti.
Tommaso Romano crede nella distinzione e combatte per la distinzione: <<chi gode di un animo nobile – proclama con la fierezza tipica del distinto studioso – non sopravviverà inebetito nel nichilismo e nella sciatteria>> nei quali è pur vero che si rotolano i tempi moderni nell’ebbrezza di contaminarsi col nulla e col brutto. E in questo rotolare tutto decade e niente si salva.
Eppure, per il nostro Autore, negli apocalittici tempi del presente, invero intrisi pur essi di “pioggia di zolfo e di piombo”, la vocazione alle “idee chiare e distinte” è speranza di salvezza per quelle anime che dantescamente si stagliano “sdegnose e solitarie” sull’estremo orizzonte della distanza come un faro di nobile ed intrepido coraggio di contrasto nei confronti dell’ignobile viltà del conformismo dilagante.
Sentiamo la mancanza, oggi, di tante figure giganteggianti che, come l’antico Sordello da Goito, sappiano professare e testimoniare la vera dignità della vita, l’autentica severità della coerenza, la limpida condotta dell’uomo onesto e di gentile aspetto, dell’uomo, ovvero, che impronta a decoro e a virtù i propri pensieri, i propri sentimenti, le proprie gesta.
In questo senso una vita decorosa è tale quando sa ostentare il decoro morale e gli obblighi di comportamento sociale che da esso derivano. La vita decorosa, dunque, rifugge dall’esibizione degli inutili orpelli e delle effimere decorazioni, per adornarsi invece delle insegne che danno lustro agli austeri e buoni costumi della rettitudine, sicché è legittimo dire, senza tema di smentite, che un uomo decorato da una vita decorosa è un uomo non solo distinto ma anche dotato di un certo ‘saper fare’.
Tommaso Romano, nel delineare le tante situazioni della distinzione, assume come principio di discorso l’esortazione del nostro sommo Dante Alighieri per la quale ‘non fummo fatti per viver come bruti ma per seguire virtute e canoscenza’. Il che – tradotto in altri termini – è un invito a rifuggire il volgo e le volgarità che rendono miserevole e miserabile la concezione di vita grossolana di una umanità che ha in spregio la coltivazione della sapienza, della saggezza e della bellezza. L’uomo incolto e selvaggio infatti non è altro che l’uomo della barbarie ritornata, l’abitante delle moderne selve oscure.
Dinanzi a quest’uomo, tuttavia, si apre una speranza di salvezza. Infatti, la prospettazione di uno stile di vita di superiore civiltà, che proprio le risorse ideali (e non altre) della Tradizione possono offrirgli per insegnargli l’arte del buon vivere, quella del buon gusto e, non per ultimo, quella del misurato comportamento, rappresenta una spinta di palingenesi, una molla di decoroso riscatto dalla supina volgarità che insozza interiormente ed esteriormente.
La Tradizione, nella riflessione di Tommaso Romano, diventa quindi la chiave di volta del riposizionamento della distinzione (nei suoi due aspetti di individuale e di collettiva) nel mos maiorum e nel more nobilium.
L’uomo distinto non nasce, ma discende da una genealogia forgiata dalla sostanza immateriale di valori mai rinnegati, custoditi nel patrimonio delle generazioni che ci hanno preceduto, trasmessi nella loro integralità e confermati da una personale esperienza di esistenza.
Sotto questo punto di vista, la persona distinta non solo fa proprio il costume dei Padri ma anche lo arricchisce nel corso della propria vita individuale perseverando in nobilitate.
Vivere nobilmente, allora, non significa vivere in una maniera vetustamente fuori dal mondo sociale che ci circonda, cioè in una antiquaria separatezza. Vivere nobilmente, invece, significa condurre uno stile sociale all’insegna della gravitas ed impregnato dall’onore di fedeltà ai supremi principi morali.
L’intendimento di Romano, dunque, è quello di far piazza pulita dei consueti anacronistici significati che definiscono il concetto e lo status della nobiltà. <<Nel vetusto vocabolario araldico-genealogico-nobiliare è contemplata una definizione di qualità che possiamo prendere volentieri in prestito: lo stato more nobilium, lo stato in cui, cioè, si vive nobilmente, anche a prescindere dal pubblico riconoscimento della nobiltà; (…) vale a dire che anche il nobilitante vivere e sentire può creare le premesse di una discendenza improntata a tali valori>>.
Affermando ciò, Tommaso Romano cita, a conferma della propria tesi, l’autorevole pensiero di Dante Alighieri per il quale – come è stato già ricordato – <<la stirpe non fa le singolari persone nobili, ma le singolari persone fanno nobile la stirpe>>. Di conseguenza, nel tempo presente la nobiltà, nella visione del nostro Autore, <<non può essere oggi che quella dello Spirito degno del passato, oppure che è pronto a generare una novella Tradizione>>.
In un’epoca in cui si è affievolito il principio di legittimazione nobiliare e nella quale i titolari della fons honorum sembrano centellinare, se non quasi addirittura rinunziare all’esercizio del potere nobilitante, si corre il rischio di decretare la definitiva scomparsa delle gerarchie tradizionali che hanno caratterizzato millenariamente la civiltà europea e l’ordinato, armonioso sistema del jus publicum europeum.
Un esito del genere sarebbe una vera e propria catastrofe per l’identità culturale del Vecchio Continente e suonerebbe come colpa grave per coloro che per ignavia, o per colpevole rinunzia delle loro prerogative sovrane, lasciassero scomparire corpi e istituti nobiliari la cui ragione di diritto è sancita dalla voluntas regis di Principi che sono a capo di Dinastie comunque non debellate.
Le elitès giocano sempre un ruolo di guida in ogni epoca storica; la loro scomparsa, o la loro sostituzione, determinano mutamenti non irrilevanti negli assetti sociali e politici consolidati. Le elitès sono perciò indispensabili per gli antichi e nuovi regimi. Ma, avverte Romano, c’è una grande differenza fra quelle che dominano le scene di oggi e quelle che governavano nell’Antico regime. Le elitès di oggi non sono altro che delle oligarchie monopolizzatrici, cioè gruppi di potere, invece quelle di ieri esprimevano uomini dotati socialmente e pubblicamente delle migliori qualità, gli eccellenti che si distinguevano per essere, insomma, riconosciuti come autentici aristocratici.
Agli aristocratici, e non ai portatori degli interessi demo-plutocratici, si rivolge Tommaso Romano per invocare una nuova renovatio imperii. Su questo punto egli è abbastanza chiaro e perentorio. <<Che siano il denaro, la potenza sociale o le ‘cordate’ amicale e/o clientelari a decidere, questo lo riteniamo, invece, non consono al valore nobilitante e, in ultima istanza, ininfluente in termine morali e spirituali per un autentico riconoscimento di aristocrazia, vero sigillo di una conseguita nobiltà integrale>>.
L’aristocrazia, pertanto, è uno stato d’elezione che non deve nulla alla democrazia, anche se non è confliggente con essa in quanto si riferisce allo status dell’uomo coltivato e distinto. In questo senso appaiono illuminanti i pensieri di un grande filosofo italiano, Benedetto Croce, quando afferma che <<non si dice cosa peregrina se si dice che gli uomini che pensano e che operano profondamente sono pochi e che perciò le sorti della società umana sono legate a quelle di un’aristocrazia. E neppure si dice ormai alcunché di peregrino aggiungendo che non si deve pensare con ciò alle vecchie aristocrazie chiuse, a quelle del sangue e dell’eredità (…), ma ad aristocrazie sempre aperte, in continuo rinnovamento, i cui componenti, compiuta l’opera loro, muoiono o tornano nelle file, sopravvivendo all’ufficio esercitato>>.
Il messaggio che proviene dalla lezione crociana viene fatto proprio da Tommaso Romano perché è per lui chiaro che il modello archetipico greco dell’aristocrazia non può che essere aperto alle trasformazioni sociali di coloro che, adulti nella formazione, aspirano a testimoniare costumi migliori offrendo, da migliori, un servizio più elevato all’intero corpo sociale.
L’aristocrazia viene, così, ad assumere un carattere di attrazione sociale dinamico che non corrisponde a rivendicazioni premiali ma che risponde all’esigenza di garentire la feconda vitalità di rigenerazione di quel corpo sociale di cui si è detto poco sopra. Innervare elementi di aristocrazia nel tessuto sociale può contribuire, per Tommaso Romano, a rafforzare alcuni profili di etica pubblica che sembrano essere destinati al loro inesorabile nichilistico tramonto.
Il nostro autore non appoggia il suo auspicio su romantici vagheggiamenti o su estetizzanti nostalgie, ma ne addita con concretezza un possibile percorso di attuazione. Le nuove o rinnovate aristocrazie prendono forma attraverso la ricezione e la permanenza nelle istituzioni cavalleresche. Gli Ordini cavallereschi, con i loro Statuti e le loro Regole religiose, possono costituire infatti, per Tommaso Romano, una scuola d’onore, di fede, di lealtà e di dignità, in guisa che coloro che vi sono accolti possano essere educati alla vera, integrale nobiltà, cioè alla magnanimità dell’animo, all’umiltà delle pratiche di edificazione spirituale, all’impegno di dedizione caritativa, ai carismi di una missione che possiamo riassumere nella formula dei Cavalieri di Malta come tuitio fidei et obsequium pauperum.
Sì, perché non c’è nulla di più bello ed onorevole che dedicare la propria vita alla difesa della fede e al servizio di coloro che sono infermi nel corpo e – come dice con bella e ispirata immagine il Santo Padre – ‘feriti nella loro anima’. La Cavalleria, perciò, educa alla libertà perché è spada spirituale della misericordia di Dio, del suo afflato caritativo verso quei soggetti che la Tradizione ha individuato fin dal Medio Evo come i più bisognosi di protezione amorevole: le vedove, gli orfani, i poveri.
Nei presenti tempi di barbarie, acuita anche dalle perverse conseguenze di una selvaggia e disumana globalizzazione che produce finanche nuove forme di schiavitù umana, spetta alla milizia cristiana cavalleresca l’onere di avvolgere col manto della pietà i fratelli che portano i segni del Cristo sofferente.
Con le professioni, per esempio, dei voti di obbedienza e di povertà la milizia cristiana cavalleresca testimonia una vitalità della natura dell’istituzione il cui ruolo non può che essere quello, nella post-modernità, di nobilitare in senso più alto la ‘città terrena’, restaurandone i segni del Bene Comune e la Giustizia della solidarietà umana. Si tratta, invero, di affrontare la sfida della secolarizzazione e profondere le migliori energie per riconsacrare un mondo sempre più profano, sempre più incline a dissolutezze paganeggianti.
Portatori della luce della Tradizione, spetterà ai sodalizi cavallereschi illuminare con la bellezza della fede e della verità rivelata il futuro degli stili di vita dell’umanità pellegrina in questa terra. Desidero, perciò, concludere rivolgendo alla tua illustre persona, Tommaso, questo elogio della distinzione che hai voluto dedicare all’Aristocrazia, alla Cavalleria e alla Nobiltà, intravedendo in Te un distinto amico dell’Onore e della perenne Parola di salvezza
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